Literatūra ISSN 0258-0802 eISSN 1648-1143

2022, vol. 64(4), pp. 43–57 DOI: https://doi.org/10.15388/Litera.2022.64.4.14

Note sul Volgarizzamento di Bernardo Segni dell’Etica Nicomachea

Domenico Cufalo
Professor at I.I.S. Galilei-Pacinotti, Pisa
Via Benedetto Croce 32-34, Pisa (PI), Italy
Email: cufalo@gmail.com
ORCID: 0000-0002-5930-6157

Riassunto. Verso la metà del Sedicesimo secolo, Bernardo Segni (Firenze, 1504 – ivi, 1588) pubblicò alcune traduzioni italiane con commentarî di alcune opere di Aristotele. Non era uno studioso e neppure aveva una affiliazione universitaria né poteva vantare una profonda conoscenza della lingua greca, ma operava nel clima culturale del Duca di Firenze Cosimo I de’ Medici (Firenze, 1519 – ivi, 1574) e dell’Accademia Fiorentina, il cui obiettivo era amplificare la centralità culturale di Firenze e della sua lingua. In questo lavoro vengono analizzati alcuni luoghi della sua traduzione e del commento all’Etica Nicomachea di Aristotele (Firenze 1550; ristampa Venezia 1551). Attraverso questa analisi emergeranno alcune caratteristiche del metodo dell’autore, come gli scopi didattici, di certo legati al tipo di pubblico cui l’opera è rivolta, la (scarsa) conoscenza degli autori classici e delle sue fonti, e la tendenza al continuo dialogo con il presente.
Parole chiave: Aristotelismo, Rinascimento, Volgarizzazioni, Accademia Fiorentina, Bernardo Segni.

Some Remarks on Bernardo Segni’s Translation of Ethica Nicomachea

Abstract. In the middle of the sixteenth century, Bernardo Segni (Florence, 1504 – Florence, 1588) published some Italian translations with commentaries on some works of Aristotle. He was not a scholar nor did he have a university affiliation nor could he boast a deep knowledge of Greek language, but he worked in the cultural climate of Duke of the Florentine Republic Cosimo I (Florence, 1519 – Florence, 1574) and of the Florentine Academy, whose aim was to raise the cultural centrality of Florence and its dialect. In this paper I analyze some passages of his translation and commentary on Aristotle’s Ethica Nicomachea (Florence 1550; reprint Venice 1551). Through this examination some characteristics of the author’s work emerge, such as his didactic purposes, which may be related to the type of his audience, his (poor) knowledge of classical authors and sources, and his tendency towards continuous dialogue with the present.
Keywords: Aristotelianism, Renaissance, vulgarizations, Florentine Academy, Bernardo Segni.

Keletas pastabų Bernardo Segni Nikomacho etikos vertimui

Santrauka. XVI a. Bernardo Segni (1504–1588) išleido keletą Aristotelio darbų vertimų ir jų komentarų italų k. Nepaisant to, jog Segni nebuvo mokslininkas, nedirbo universitete ir neturėjo gilių graikų k. žinių, jo darbą sąlygojo Florencijos valdovo, kunigaikščio Kozimo I (1519-1574), kultūros politika ir Florencijos akademijos veikla, nukreipta į Florencijos regiono ir jos dialekto kultūrinį konsolidavimą. Šiame straipsnyje analizuojamos kelios ištraukos iš jo vertimo ir komentaro Aristotelio Nikomacho etikai. Teksto analizė atskleidžia didaktinius vertimo ir komentaro tikslus, siejamus su Segni skaitytojais, klasikinių šaltinių (ne)išmanymu ir dialogu su jo dabartimi.
Reikšminiai žodžiai: Aristotelis, Renesansas, šnekamoji italų kalba, Florencijos akademija, Bernardo Segni.

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Received: 04/08/2022. Accepted: 04/11/2022
Copyright © Domenico Cufalo, 2022. Published by Vilnius University Press
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Nella prefazione alla sua edizione dell’Etica Nicomachea, che riporta in calce la data del 21 ottobre 1547 (“XII. K. Novemb.”), Pier Vettori, rivolgendosi ai proprî concittadini, insieme al vanto di averli istruiti nella lingua greca al punto che “in eoque perdiscendo omnem laborem ac molestiam libenter ferant” e di averli fatti progredire nella conoscenza di essa tanto che “gravioribus rebus percipiendis […] idonei sint”, dichiara di sentire il dovere di inoltrarli anche “ad eas literas […] quibus non linguam tantum expolire, sed cor etiam pectusque excolere atque omni virtute cumulare possint” e conclude con l’augurio che “non animo tantum optima haec praecepta combibant, verum etiam vita factisque exprimant” (Vettori 1547; 2r-v; corsivi miei: in originale i verbi sono alla seconda persona plurale).

Non è necessario ricordare il crescente interesse che l’opera suscitò nel Medioevo e nel Rinascimento, almeno a partire dalla traduzione latina che ne aveva fatto Roberto Grossatesta intorno al 1246–12471, ma certo è che lo stesso tema dell’utilità dell’opera affiora nel volgarizzamento e nel commentario che, nei medesimi anni, approntava un altro meno noto fiorentino, Bernardo Segni (Firenze, 1504 – ivi, 1558)2.

Il suo volgarizzamento era già pronto nella primavera del 1547, come si evince da una missiva, datata al 25 giugno, in cui il Cardinale Niccolò Ardinghelli (Firenze, 1503 – Roma, 1547), che sarebbe morto di lì a poco, il 22 agosto, ringraziava l’autore per la copia, quasi certamente manoscritta, che gli aveva offerto in dono. Un dono doveroso, in verità, in quanto l’autore, sin dal 1546, nel periodo che aveva passato presso la corte di Papa Paolo III, era stato ospite proprio presso il Cardinale e a casa di costui, come ricorda in una nota pagina del suo commento (Segni 1550, 418–419)3, “se non altrove, almanco alla tavola ognigiorno”, aveva potuto discutere dell’Etica con il padrone di casa e con un altro amico, Filippo del Migliore, in margine alle letture che in quel tempo Antonio Bernardi della Mirandola (Mirandola, 1502 – Bologna, 1565)4 teneva a Roma presso il nipote del Papa, il Cardinale Alessandro Farnese.

Fatto sta che, con un ritardo di ben tre anni5, nell’agosto del 1550, data del colophon dell’edizione fiorentina, il commento vide finalmente la luce, con un proemio (Segni 1550, 11–16) in cui l’autore, prendendo curiosamente le distanze rispetto alle sue stesse versioni della Retorica e della Poetica, pubblicate insieme agli inizi del 1549 (Segni 1549), dichiara che “l’utilità conseguentemente non si tragga tanto da quegli scritti, in che è piacevolezza di dire, & arte oratoria, quanto viepiù in quegli, che lasciati da parte questi colori solamente badino al nervo della stessa facultà” (Segni 1550, 16).

Analoghe considerazioni esprime nella epistola dedicatoria, datata al 18 agosto (Segni 1550, 3–10). Indirizzata a Cosimo I, allora Duca di Firenze (Firenze, 1519 – ivi, 1574; fu Duca di Firenze dal 1537 al 1569 e quindi Granduca di Toscana fino alla morte), in essa l’autore mette sin da subito in chiaro che, se gli insegnamenti dell’Etica fossero messi in atto, oltre che solamente conosciuti, “il mondo allhora sarebbe felice, & ché quei secoli sarebbon’ da | esser’ li decantati per aurei”, attenuando poi questa affermazione con il dato encomiastico per cui essa non riguarda la sua patria, “come sé ella non fusse ripiena di buon’ costumi, ò non vivesse sotto à prudentissime leggi” (Epistola, 3-4), poiché anzi “oggi un’ simil effetto non si scorga più ché mai nella patria nostra per sommo benefitio, & per immensa virtù di V. Eccell.”, che, “con l’esempio suo, […] imprime negli animi loro la medesima forma di vita temperata, & buona”, e poi anche “con le ben’ poste leggi, che vietan’ di commetter’ il vitio con la severità delle pene” (Epistola, 8–9)6.

Utilità, dunque, “etica” e, mi si consenta di aggiungere, “linguistica”, sottolineata dal confronto con quanto portato a termine ai tempi del fondatore della potenza medicea, Cosimo de’ Medici, detto il Vecchio (Firenze, 1389 – Careggi, 1464), “honorato antecessor” dell’omonimo Duca, “da più dotto ingegno, & forse in più honorata lingua” [scil. da Donato Acciaiuoli, in latino]7, nella consapevolezza che “in questa sua maderna, bella, & da tutti ama|ta” lingua (scil. il fiorentino), “quello, che forse appresso di pochi ella perderà, che la giudicassino scolpita in materia men’ degna, senza dubbio riacquisterà ella viepiù appresso di molti, che la vedranno in materia da poter’ essere da più genti partecipata, & fruita” (Epistola, 4–5), quelle genti insomma “che per non sapere la lingua greca, nè la lingua latina non potevono altrimenti di questa dottrina trarre | frutto” (Proemio, 15–16).

La divulgazione8, ancorché di alto livello, appare dunque il motivo guida di questa opera e, per il vero, di tutta la produzione di Bernardo Segni e la si spiega facilmente nell’ambito dell’Accademia Fiorentina, in cui il Nostro fu ammesso nel 1541 e di cui fu addirittura console l’anno successivo, in sostituzione del rinunciatario Pier Vettori (Salvini 1717, 15–21).

Fondata il 1° novembre 1540 con il nome di “Accademia degli Umidi”, già il successivo 11 febbraio si trasformava, in seguito all’immissione di molti intellettuali filomedicei, in “Accademia Fiorentina”, passando sotto il patrocinio del Duca, non senza strascichi di polemiche fra i membri originari, spesso di fede repubblicana, e quelli nuovi9. Essa si prefiggeva come obiettivo dichiarato, tra gli altri, la traduzione delle “scienze e l’altre cose utili e onorate di qualunque altra lingua […] nella nostra fiorentina” (Capitoli dell’Accademia Fiorentina, BNF, Magl. IX 91, ff. 31r-32v: Plaisance 2004, 232 [Document n° 7]), al fine di valorizzare la lingua e la cultura della città e di ribadirne l’egemonia culturale sull’Italia. Donde si capisce perché, quasi due secoli dopo, Salvino Salvini, nei suoi Fasti consolari dell’Accademia Fiorentina (1717), poté osservare che

era adunque dovere, che a un sì chiaro Traduttore, e spositore Latino di Aristotile [scil. Vettori], subentrasse uno, che nel Toscano idioma, esprimesse il medesimo pensiero dell’altro [scil. Segni], per fare le Opere di questo gran Filosofo più comuni, e perciò utili più alla nostra Accademia, mantenendo l’uso, al quale, in creandola, fu destinata, di tradurre i migliori Autori (Salvini 1717, 17).

Il pubblico dei membri dell’Accademia era piuttosto eterogeneo e annoverava al suo interno insigni grecisti come Pier Vettori o Benedetto Varchi10, ma anche dilettanti, come Segni stesso, che non poteva vantare né una affiliazione al mondo universitario né, tanto meno, una solida conoscenza del greco11. Inoltre, sappiamo che le letture interne all’Accademia erano seguite da sedute pubbliche, che si svolgevano in Santa Maria Novella ed erano aperte anche ad una utenza non specialistica12.

È dunque in relazione sia a questo tipo di utenza sia alle competenze personali e alle finalità dell’autore, che si spiegano molte delle caratteristiche del suo lavoro, a cominciare dall’uso piuttosto compilativo delle fonti13.

La presente rapida carrellata può partire con alcune per la verità ingenue precisazioni. Ad esempio, all’inizio del libro II Segni spiega, sulla scorta di Aristotele, l’etimologia del termine ἠθική:

Essendo adunche la Virtù di due sorti, una (dico) intellettiva; & l’altra morale: l’intellettiva (ripigliando) per lo più si genera, & si accresce per via delle discipline; onde interviene, che ella hà di bisogno d’esperienza, & di tempo: Et la morale s’acquista mediante i costumi, onde hà ella havuto il nome; chè in greco è ella detta ἠθικὴ: il qual nome poco varia da ἔθος, che significa in tal lingua Costume (75).

ma sente la necessità di aggiungere, rispetto al testo aristotelico (EN II 1, 1103a14-18 διττῆς δὴ τῆς ἀρετῆς οὔσης, τῆς μὲν διανοητικῆς τῆς δὲ ἠθικῆς, ἡ μὲν διανοητικὴ τὸ πλεῖον ἐκ διδασκαλίας ἔχει καὶ τὴν γένεσιν καὶ τὴν αὔξησιν, διόπερ ἐμπειρίας δεῖται καὶ χρόνου, ἡ δ᾽ ἠθικὴ ἐξ ἔθους περιγίνεται, ὅθεν καὶ τοὔνομα ἔσχηκε μικρὸν παρεκκλῖνον ἀπὸ τοῦ ἔθους), la chiosa “chè in greco è ella detta ἠθικὴ…, che significa in tal lingua Costume”, chiosa non necessaria nelle traduzioni latine, dove era agevole percepire il rapporto etimologico tra i termini moralis e mos14.

Caso affine è quello dove Segni, commentando l’espressione μακαρίους δ᾽ ἀνθρώπους (EN I 10, 1101a20-21), si premura di notare di aver integrato, nella traduzione (59), un come assente nel testo greco:

Ove [Et diremgli beati come huomini] Il testo greco ha Et beati huomini, mà le parole importano il medesimo; & per tal detto conchiudesi l’huomo felice, & beato dover’ essere, come egli ha descritto. Mà perchè il Filosofo conosce tal felicità non esser’ | perfetta, però dice Et beati come huomini, cioè beati per quanto patisce l’humana sorte. Della qual materia sè e’ si dia in questa vita un’ perfetto felice, n’ hò discusso nel comento del cap. penultimo del libro X (62-63).

Anche questa nota è oziosa, giacché il testo greco non necessita di alcuna preposizione15, né fa testo una sua eventuale presenza in qualche traduzione latina16. È tuttavia molto verosimile che gli sia stata suggerita dalla traduzione del lemma aristotelico contenuta nella versione latina, a cura di Giovanni Bernardo Feliciano, dei commenti di Eustrazio, Aspasio e Michele all’opera di Aristotele pubblicata a Parigi nel 1543 per i tipi di Jean de Roigny, ove appunto si legge “ac beatos quidem, ut homines” (f. 33r, r. 56)17.

Questa stessa esigenza, che potremmo definire ‘didattica’, lo porta talora ad espandere il modello con considerazioni più, per così dire, personali. Ad esempio, in relazione al termine pare (EN I 1, 1094a2: δοκεῖ), Segni scrive:

Mà esponendo qualcosa del testo, ove e’ dice nel principio [Pare] È tal modo di dire usato da lui, òver’ per modestia, òvero perché in tal lingua per sua propietà s’intenda il medesimo, che affermare; òvero perché alle cose dette non s’attribuisce veramente il Desiderio, mà metaforicamente (19).

adducendo ben tre motivazioni per l’uso di questo termine, di cui solo la terza e ultima può essere accostata al commento di Eustrazio (EN 7.35-36) τὸ δοκεῖ δὲ εἶπεν ὡς κοινῶς λεγόμενον πί τε τοῦ ἀληθοῦς καὶ τοῦ φαινομένου (“dixit verò (videtur) eo quod verbi huius significatum & verò, & ei quod apparet, commune est” [f. 2v, rr. 51–52]), mentre le prime due appaiono più semplici, se non addirittura semplicistiche.

Questa esigenza metodologica viene confermata anche da casi più articolati. In relazione a EN II 9, 1109a30-b1, il nostro osserva:

Mostraci il Filosofo in questo Cap. il modo da poter’ conseguire il mezo con queste tre conditioni osservate; La prima è, partendoci dal più contrario estremo alla Virtù: L’altra è partendoci da quel contrario, ove noi siamo maggiormente inclinati per natura: La terza partendoci dal piacer’ de’ sensi. La prima ci conferma con l’esempio addotto da Homero nel XII. dell’Odissea, dove Circe ammonisce Ulisse col verso messo nel Testo, chè nel passar’ lo stretto di Messina scosti la nave più ché e’ può dallo scoglio, che di quei due è il più cattivo; & questo è Scilla: il quale uno scoglio denota egli per quelle parole Onda, et Fumo, & non denota l’una, & l’altro, come dicon’ gli espositori di questo luogo, perchè e’ non farebbe à proposito. Questo luogo d’Homero imita Virgilio nel III. dell’Eneide faccendo fare a Didone inverso d’Enea il medesimo ufficio, che fa Circe inverso d’Ulisse (113).

Come si può notare, Segni, che in traduzione aveva messo il nome di Circe (112), qui passa sotto silenzio l’errore di Aristotele, che, nel citare a memoria i versi, aveva attribuito le istruzioni di Od. μ 219-220 a Calipso18, ma, in compenso, aggiunge un rimando al terzo libro dell’Eneide (vv. 420-432) anch’esso erroneo, visto che nel poema virgiliano le istruzioni sono date ad Enea non da Didone, ma da Eleno.

Quello delle citazioni è un aspetto degno di essere approfondito con un esame sistematico. In generale il Nostro, sotto questo aspetto, non risulta essere molto preciso, come conferma anche il commento a EN III 11, 1116a22-26, dove si avverte che

sono perciò addotti nel testo due uersi d’Homero cavati l’uno dell’VIII. & l’altro del XXII. dell’Iliade. Et dove sono allegati gli altri “Chi fia, che lunge” tali si cavano del XV. dell’Iliade in persona d’Hettore, benché nel poema d’Homero eglino stieno altrimenti (154).

Il riferimento è, nell’ordine, a Il. VIII 148-149, XXII 100 e II 391-393, ma, in relazione a quest’ultimo luogo, si precisa che i versi “nel poema d’Homero […] stieno altrimenti”, senza però esplicitare in quale senso. Ci si può chiedere se il Nostro fosse consapevole del fatto che la citazione aristotelica semplifica il testo omerico19, ma è forse più probabile che sapesse che in Omero le parole in questione erano pronunciate da Agamennone, e non da Ettore, visto che la cosa era segnalata in una nota marginale alla traduzione di Argyropoulos (f. 54v, § 90: “Ilia. ο. quae verba etiam sub persona Agamemnonis referuntur. Ilia. β. Vide Aristo. lib. 3. cap. 10. Politicorum”)20.

Altrove, Segni si rivela piuttosto arguto, ad esempio commentando EN III 11, p. 1118b10-11 πᾶς γὰρ ἐπιθυμεῖ ὁ ἐνδεὴς ξηρᾶς ἢ ὑγρᾶς τροφῆς, ὁτὲ δὲ ἀμφοῖν, καὶ εὐνῆς, φησὶν Ὅμηρος, ὁ νέος καὶ ἀκμάζων, tradotto con “perché ogni huomo desidera, quando egli hà di bisogno ò del secco nutrimento, ò dell’humido; & alcunavolta dell’uno, & dell’altro: ‘E ’l letto brama il giovane, & l’huom’ fatto’” (162). Nel commento, a p. 165, il Nostro spiega che

Desiderij naturali, & comuni chiama egli quei del nutrimento, i quali servono per mantener’ l’individuo di ciascuno animale; mettendo infra questi anchora il desiderio del riposo, & del sonno: òvero (che è meglio interpretar’ così il verso d’Homero “Il letto brama ’l giovane, & l’huom’ fatto”).

L’identificazione del passo Omerico citato, nonché dei suoi confini, non è pacifica. Acciaiuoli (f. 59v, § 111), Lefèvre d’Étaples (f. 33r, § 61) e Feliciano (f. 33r, rr. 22 e 36-37) non si erano nemmeno posti il problema e solo Vettori si degnerà di dire qualcosa in proposito, pur senza indicare esattamente il riferimento21. In genere le edizioni aristoteliche rimandano ad Il. XXIV 129-131 οὔτέ τι σίτου / οὔτ᾽ εὐνῆς; ἀγαθὸν δὲ γυναικί περ ἐν φιλότητι / μίσγεσθ᾽, ma, come si può ben vedere, nel passo manca qualsiasi riferimento a giovani e ad uomini maturi, né si può escludere che il termine εὐνή qui rimandi al riposo, visto che le cose veneree sono certamente richiamate dalle parole immediatamente successive. Segni sembra dunque aver qui colto le problematicità della scarna e molto imprecisa citazione aristotelica, riconoscendo l’ambiguità del senso di εὐνή.

Tornando alla citazione odissiaca, è interessante che Segni ritenga che le parole “Onda, et Fumo” si riferiscano entrambe a Scilla, e non sia a Scilla che a Cariddi, come sostengono quelli che lui chiama “espositori di questo luogo” e dietro i quali è possibile riconoscere Acciaiuoli, che precisava che “est enim Homeri versus: quo admonet Ulyssem variis navigationibus errantem post excidium Troiae ut extra fluctum et fumum navem adigat, id est, ut evitet scyllam & charybdim, & ubi fiunt signa quaedam ex quibus cognoscuntur, scilicet ex fumo & fluctibus ut ait Homerus” (f. 39v, § 58).

Tuttavia, la ricostruzione di Segni, nel suo sforzo di “chiarezza” e di “semplicità”, risulta alquanto criptica.

Acciaiuoli, nel presentare il primo dei tre metodi per ritrovare il “giusto mezzo”, coerentemente con il testo di Aristotele, era partito dall’opposizione che intercorre fra vizio e virtù, ovvero fra il medio e i suoi due estremi. Poiché, sostiene, uno dei due estremi sarebbe maggiormente opposto al medio rispetto all’altro, bisogna fuggire massimamente da questo estremo più, per così dire, “nocivo”, e avvicinarsi dunque all’altro, scegliendo, pertanto, il “male minore”22:

Haec est secunda pars in qua philosophus affert tria documenta inveniendi medium. primum sumitur ex parte oppositionis medii ad extrema: secunda nostra ex parte: tertium ex parte voluptatis. in prima affert documentum ex oppositione quae est inter virtutem et vitium, vel inter medium, & extrema, quia dixit quod medium magis opponitur uni extremorum quam alteri. Ergo qui vult inveniri medium dicit philosophus, fugiat maxime ab eo extremo, quod magis opponitur medio, & ubi nonnulli in textu habent Calypso: vult dicere Circe. Est enim Homeri versus: quo admonet Ulyssem variis navigationibus errantem post excidium Troiae ut extra fluctum et fumum navem adigat, id est, ut evitet scyllam & charybdim, & ubi fiunt signa quaedam ex quibus cognoscuntur, scilicet ex fumo & fluctibus ut ait Homerus. at si non possumus omnino attingere medium: saltem sumamus minus malum iuxta vetus proverbium, secunda quandoque navigatione esse utendum, id est, ut agamus eo modo quo melius possumus: si eo modo quo volumus non licet (f. 39v, § 58).

Di tutta questa spiegazione in Segni rimane ben poco, ovvero i soli “partendoci dal più contrario estremo alla Virtù” e “scosti la nave più ché e’ può dallo scoglio, che di quei due è il più cattivo” e, quel che è peggio, non sopravvive nemmeno il riferimento alla proverbiale “seconda navigazione” (EN II 9, 1109a33-34: κατὰ τὸν δεύτερον, φασί, πλοῦν), terribilmente tradotta con un “nel secondo grado di bontà navigando (come si dice)”. A quanto pare, Segni aveva molta poca dimestichezza pure con Platone, che menziona più volte questo il proverbio (Phaed. 99d1; Pol. 300c2; Phil. 19c2-3) e, almeno in questo caso, ha consultato male le sue traduzioni latine23.

Correlata con questi sforzi volti alla semplificazione è, a mio avviso, anche un’altra tendenza molto significativa e volta, per così dire, alla “attualizzazione”. Già David Lines (Lines 2013, 830–32 e 849–52) e, prima di lui, Ullrich Langer avevano portato l’attenzione su questo aspetto: il primo, in particolare, sui riferimenti alle dottrine luterane, il secondo sul problema della stessa natura del commentario, che si pone come “a narrative of the process of ‘espositione’, and at the same time as a narrative of the practice of the ethical point which is being expounded” (Langer 1999, 114–122 in part. 120)24.

In questa sede vorrei richiamare l’attenzione su altri casi curiosi.

Commentando EN II 3, p. 1105a10-16 (ἔτι δὲ χαλεπώτερον ἡδονῇ μάχεσθαι ἢ θυμῷ, καθάπερ φησὶν Ἡράκλειτος, περὶ δὲ τὸ χαλεπώτερον ἀεὶ καὶ τέχνη γίνεται καὶ ἀρετή· καὶ γὰρ τὸ εὖ βέλτιον ἐν τούτῳ. ὥστε καὶ διὰ τοῦτο περὶ ἡδονὰς καὶ λύπας πᾶσα ἡ πραγματεία καὶ τῇ ἀρετῇ καὶ τῇ πολιτικῇ· ὁ μὲν γὰρ εὖ τούτοις χρώμενος ἀγαθὸς ἔσται, ὁ δὲ κακῶς κακός. ὅτι μὲν οὖν ἐστὶν ἡ ἀρετὴ περὶ ἡδονὰς καὶ λύπας, καὶ ὅτι ἐξ ὧν γίνεται, ὑπὸ τούτων καὶ αὔξεται καὶ φθείρεται μὴ ὡσαύτως γινομένων, καὶ ὅτι ἐξ ὧν ἐγένετο, περὶ ταῦτα καὶ ἐνεργεῖ, εἰρήσθω)25, in cui lo Stagirita, sostenuto il principio secondo cui alla base dell’etica c’è un uso corretto del piacere e del dolore, afferma che l’arte e la virtù rientrano nell’ambito delle cose ‘difficili’ (χαλεπώτερον), il Segni chiosa:

Ove [Oltradiquesto egli è più difficile impresa] Cavasi quivi la quarta, & ultima in questo modo, secondo il detto d’Heraclito egli è più difficile impresa vincere il piacere ché l’ira; la Virtu, et l’Arte stanno intorno al più difficile: Adunche elleno stanno intorno al piacere. Et questo è certissimo chè elleno stieno intorno al più difficile, perché in tal modo l’opera loro è più eccellente, com’è verbigratia nella Virtù della Temperanza, dove più bella operatione è l’astenersi da’ gran piaceri del senso che da’ piccoli Et com’è verbigratia nell’Arte del sonare il Liuto, ò dell’Arte scultoria, ò Pintoria, dove nell’una è più bella operatione il sonarlo esattamente, come lo sonava ne’ tempi nostri Francesco da Milano, ché come lo suonano molti altri; & nell’altre il rendere le Figure simiglianti alle vive cose, come ne’ tempi nostri fà in amendue il nostro Michelagnolo Buonarroti, ché non è il far’ l’una, et l’altra cosa con mediocre artifitio, come fà la più parte (88).

confermando la difficoltà delle arti e la conseguente loro eccellenza tramite gli esempi di due personaggi noti ai lettori fiorentini del tempo (e non solo), quali Michelangelo Buonarroti e il liutista Francesco da Milano, ovvero Francesco Canova (o Canona), morto pochi anni prima (il 15 apr. 1543), ma che aveva lavorato, tra gli altri, per i Medici, nelle persone dei papi Leone X e Clemente VII e del cardinale Ippolito26.

Non v’è nulla di sorprendente nel fatto che un fiorentino, che tra l’altro lavorava per la famiglia de’ Medici, mostri così tanto interesse per l’arte e ne è una riprova anche il gustoso caso del camaleonte, citato a mo’ di esempio da Aristotele a EN I 10, p. 1100b4-8 δῆλον γὰρ ὡς εἰ συνακολουθοίημεν ταῖς τύχαις, τὸν αὐτὸν εὐδαίμονα καὶ πάλιν ἄθλιον ἐροῦμεν πολλάκις, χαμαιλέοντά τινα τὸν εὐδαίμονα ἀποφαίνοντες καὶ σαθρῶς ἱδρυμένον27.

La menzione di questo animale offre a Segni lo spunto per un ampio excursus, in cui addirittura smentisce, pur senza nominarlo, l’Acciaiuoli, che, non avendo mai visto un camaleonte e fondandosi solo su una pseudo-etimologia del nome, aveva sostenuto che esso fosse un “animal parvo leoni simile”28. Ecco cosa scrive Segni in proposito:

Camaleonte (per dir’ qualcosa di questo Animale) risguardando all’etimoglia del vocabolo, significa un’ Lione piccolo, dà χαμαιλέων, che vuol dire Humileon. Ma il senso riprova ciò non esser’ vero, perché secondo chi n’ hà scritto, & per quello, che d’un’ ritratto dell’istesso animale, che già vivo fu portato à Papa Lione X, hò veduto, ha egli forma di Ramarro, havendo il capo di Ranocchio, la coda lunga, & ritorta, i piedi come di pecora, mà bassi, & diritti, il colore vario come il Liopardo; & di tal maniera debolmente colorato, ché quasi è senza colore alcuno: onde si dice esser’ atto à ricever’ tutti i colori di quelle cose, dove e’ s’appoggia. Nasce tal’ Animale in India, & dicesi chè e’ non si nutrisce d’altro ché d’Aria. La qual cosa, come possa stare, è difficile seguendo l’oppenion’ d’Aristotile, che non vuole, chè l’Animale si possa nutrire d’un solo elemento. Mà ella non è difficile à chi ben’ considera, chè l’aria, di che e’ si pasce, non è semplice elemento, mà vaporoso, et composto. Mà ritornando alla similitudine, per che egli è addotto in esempio, tale è per mostrare la variatione del felice; conciosia chè | tale Animale si cangi ad ogni colore: il che nasce in lui, perchè e’ non è colorato, che si vegga, et di color’ manca per mancamento di sangue, che lo fa di colore quasi insensibile, & conseguentemente lo fà molto timido (61-62).

Come dimostra la frase “secondo chi n’ hà scritto, & per quello, che d’un’ ritratto dell’istesso animale […] hò veduto”, neppure lui aveva una conoscenza diretta del rettile. L’identificazione delle fonti scritte cui allude, tra le quali possiamo annoverare, ad esempio, una sezione dell’aristotelica Historia Animalium dedicata al rettile (II 11, 503a15-b28), molto probabilmente a lui ignota29, è impresa molto ardua, ma qualcosa possiamo dire sul ritratto, ritraente un camaleonte che, ancora vivo, era stato regalato al papa Leone X, al secolo Giovanni de’ Medici (Firenze, 1475 – Roma, 1521).

Della curiosità del papa mediceo nei confronti di questi animali esotici è testimonio Giorgio Vasari, che, proprio in quegli anni, sempre per i tipi di Torrentino, dava alle stampe le Vite (Vasari 1550). In proposito, lo storico dell’arte racconta che un allievo di Raffaello, Giovanni da Udine (1487-1561), “il quale per contrafare animali è unico e solo, fece in ciò tutti quegli animali che Papa Leone aveva, il cameleonte, i zibetti, le scimie, i papagalli, i lioni, i liofanti e gli altri animali stratti [scil. «stranieri»]”30.

La mano di questo pittore è in genere riconosciuta nelle grottesche delle Logge Vaticane e si è anche ipotizzato che sia lui l’autore degli animali che compaiono nella Creazione degli animali, un affresco che abbellisce la prima volta della cosiddetta Loggia di Raffaello31.

Non mi è dato sapere se fra le grottesche si annidi qualche camaleonte né ho potuto scovarlo nella Creazione degli animali, che pure presenta molti animali esotici, fatto sta che probabilmente non è necessario andare fino a Roma per trovare il nostro rettile.

Il medesimo Vasari, infatti, nella Vita di Andrea del Sarto, descrive un affresco commissionato al pittore, per conto del papa, da Ottaviano de’ Medici per la villa medicea di Poggio a Caiano (Prato). Si tratta di un Tributo a Cesare32, che il pittore dipinse intorno al 1520, ma che, per la morte del papa, rimase, e lo era ancora ai tempi di Vasari e Segni, incompiuto (sarà completato da Alessandro Allori solo nel 1582). Come dice lo stesso Vasari, “Et inoltre figurò a sedere in su quelle scalee un nano che tiene in una scatola il camaleonte, che non si può imaginare nella disformità della stranissima forma sua, la bella proporzione che gli diede” (Vasari 1550, 756).

È fuori di dubbio che sia questo il ritratto incriminato e, se mai fosse necessario, ce lo conferma il fatto che l’animale è ivi quasi bianco, cosa che collima con la descrizione di Segni, che lo definisce “di tal maniera debolmente colorato, ché quasi è senza colore alcuno”.

Il camaleonte di Aristotele era però un esempio e, in realtà, forse solo una citazione poetica33, introdotta per spiegare la paradossalità di una definizione di εὐδαιμονία legata alle vicende della τύχη (i “beni di fortuna” di Segni): al contrario, la εὐδαιμονία è, nelle parole dello Stagirita, μόνιμος e μηδαμῶς εὐμετάβολος (cf. EN I 11, p. 1100b2-3) e sta in una posizione, per così dire, intermedia fra la ἀθλιότης e la μακαριότης, condizioni che, a loro volta, si collocano nella sfera della τύχη (p. 1101a6-8: ἄθλιος μὲν οὐδέποτε γένοιτ’ ἂν ὁ εὐδαίμων, οὐ μὴν μακάριός γε, ἂν Πριαμικαῖς τύχαις περιπέσῃ)34.

Per Bernardo Segni, rampollo di una famiglia repubblicana caduta economicamente in disgrazia e costretto a porsi al servizio dei Duchi, sempre soggetto alle invidie e all’aperta ostilità degli altri membri dell’Accademia Fiorentina, che gli rimproveravano lo scarso pedigree universitario e il suo collaborazionismo con i Medici, ma che però covava sempre dentro il suo cuore sentimenti repubblicani, il camaleonte diviene invece la metafora di una condizione ben nota a chiunque, come lui, fosse un frequentatore delle corti e che emerge proprio in coda all’estratto sopra citato: “Per la qual ragione s’assomiglia egli anchora convenientemente alla natura degli Adulatori, i quali per mancar’ d’animo s’accordano alle voglie di tutti coloro, con chi essi conversano” (62).

In conclusione, con buona pace di adulatori e detrattori, sebbene, nel corso di questa rapida rassegna, abbiamo potuto confermare la poca competenza filologica dell’autore, attraverso alcuni esempi, finora, per quanto ne sappia, ignorati, di commenti pletorici, se non proprio futili, di citazioni imprecise, talora anche di traduzioni erronee, sarebbe ingeneroso biasimarlo per i risultati da lui raggiunti. Le finalità divulgatorie, ma, forse ancor di più, quelle educative, rendono a mio avviso giustizia ad una opera che, sebbene nata in una Accademia, era pur sempre proiettata soprattutto verso un pubblico di non specialisti, i quali, più che da complesse questioni filologiche e filosofiche, dovevano essere maggiormente attratti da esempi concreti e legati all’esperienza di tutti i giorni, quali appunto dovevano essere i camaleonti, se non quelli reali, almeno quelli metaforici35.

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1 Sulla questione mi limito a rimandare a (Kraye 1995; Bianchi 2012a).

2 Per una biografia di Bernardo Segni, si vedano (Morandi 1936) e (Bionda 2018).

3 Le citazioni saranno sempre desunte dalla editio princeps, pubblicata a Firenze per i tipi di Lorenzo Torrentino, stampatore ducale (Segni 1550).

4 Noto filosofo aristotelico, sul quale si vedano (Zambelli 1967) e (Forlivesi 2009).

5 Varie sono le motivazioni addotte per questo ritardo: l’opportunità di attendere le pubblicazioni aristoteliche di Pier Vettori, in preparazione proprio in quegli anni (Vettori 1547, 1548), qualche screzio con quest’ultimo (Ridolfi 1962; Bionda 2002, 2014, 77–79), ma anche, e soprattutto, invidie e ripicche varie all’interno dell’Accademia Fiorentina, che si innestavano anche con ben più serie dispute politiche fra l’originario gruppo, formato da intellettuali di fede repubblicana, e quello aggiuntosi successivamente, filomediceo.

6 La prosperità della propria patria è ulteriormente avvalorata con la considerazione per cui “ciascheduno vive nella patria nostra sicuramente, & in pace; & hà in essa quegli honori, & quei gradi, che alla nobiltà della famiglia, all’abbondanza delle facultà, & all’uso della virtù son’ convenienti: perché chi traffica le mercantie, volentieri ci conviene, veggendo aperta la ragione dell’havere, & del dare, al forestiero come al cittadino, al povero come al ricco, & al piccolo come al grande; & chi esercita l’arti vili volentieri attende al suo esercitio, veggendo di trarre il frutto per la vita da quelle abbondantemente: & sentendosi di viver’ sicuro da ogni ingiuria, & sopruso […]. Et chi è Cittadino […] con contento d’animo mette il tempo, & lo studio suo in quella vita, che e’ s’è eletta; conoscendo in essa d’ire in acquisto hor’ mediante li traffichi, hor’ mediante la civilità, & hor’ mediante le lettere, & i buon’ costumi” (Epistola, 8–9). Sui problemi connessi con questa parte dell’epistola dedicatoria si veda (Langer 1999, 110–111). Al di là della scontata piaggeria rinvenibile nei suoi volgarizzamenti, ben altro è il giudizio su Cosimo e i Medici che Segni rivela nelle sue Istorie fiorentine, opera che copriva gli anni dal 1527 al 1555, ma che vide la luce postuma, addirittura solo nel 1723 (Lines 2016).

7 Donato Acciaiuoli (Firenze, 1429 – Milano, 1478) è autore di una Expositio super libros Ethicorum pubblicata a Firenze nel 1478 presso la stamperia della chiesa di San Jacopo di Ripoli, ma successivamente stampata insieme alla traduzione di Giovanni Argyropoulos (Costantinopoli, 1416 circa – Roma, 1487), le cui letture aristoteliche sono alla base anche del commento del fiorentino: l’incunabolo della Expositio è consultabile al sito https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k59377k, ma, per maggiore comodità, citerò dall’edizione Parigina del 1555, che riunisce traduzione di Argyropoulos e commento di Acciaiuoli (Argyropoulos & Acciaiuoli 1555). Il nome di Argyropoulos è espressamente menzionato nel commento di Segni all’Etica, alle pagine 245 e 314. Nel primo passo, relativo a EN V 8, p. 1132b21-28, Segni (240) dichiara di seguire l’Argyropoulos (cf. f. 86r, § 40) nell’omettere di tradurre una intera frase, per la verità assente in tutte le edizioni moderne, nonché in (Vettori 1547, fol. 31v–32r), e non tradotta nemmeno da Roberto Grossatesta (236.1–2), ma solo da Bruni (f. 59r). La frase incriminata doveva essergli nota tramite una nota marginale alla traduzione di Argyropoulos simile a quella presente al f. 86r § 40 dell’edizione da me utilizzata (lo stesso scolio è ad esempio leggibile alla p. 379 dell’edizione pubblicata nel 1544 a Lione per i tipi di Antoine Vincent) oppure da (Feliciano 1543, fol. 106r–v), nel cui margine si legge: “antiqui ferè omnes Aristotelis interpretes videntur, hic non legisse sequentem orationem. τὸ δ’ ἀντιπεπονθὸς οὐκ ἐφαρμόττει οὔτε ἐπὶ τὸ νόμιμον οὔτε ἐπὶ τὸ | πολιτικόν· πολιτικὸν λέγω τὸ κανωνικόν, quos rectè sequutus videtur interpres”. Nel secondo, relativo a EN VI 11, 1143a12–18, Segni dichiara invece di non aver voluto seguire la traduzione, per la verità piuttosto aberrante, del suo predecessore, “per non m’esser’ certa” (314). Sulla questione nel suo complesso, rimando a (Rolandi 1996, 558–559; Lines 2013, 842–847).

8 Sulle motivazioni che spingono gli intellettuali del Cinquecento ai volgarizzamenti, si veda (Bianchi 2012b, 482–485). In particolare su Segni, rimando a (Cufalo 2022).

9 Per una storia dell’Accademia Fiorentina, si veda (Plaisance 2004) e in particolare, sulla riforma e le polemiche che ne seguirono, le pag. 79-116. Comoda anche la sintesi contenuta nella voce dedicata ad Antonfrancesco Grazzini detto il ‘Lasca’ nel Dizionario Biografico degli Italiani (Pignatti 2002).

10 Il primo fu autore, come si è detto, di una edizione (Vettori 1547) e successivamente di un monumentale commento all’Etica Nicomachea (Vettori 1584). Il secondo fu autore di un Comento sopra il primo libro dell’Etica d’Aristotile tutt’oggi inedito (Bionda 2002, 252–253), frutto di lezioni che già nel nel 1540 aveva tenuto presso l’Accademia degli Infiammati di Padova, ma che poi aveva riproposto presso l’Accademia Fiorentina a partire dal 1543. Sulle vicende legate alle lezioni patavine di Varchi, si veda (Bianchi 2012b, 486–488).

11 Segni, che pur aveva studiato, nell’anno trascorso in Veneto, fra dicembre 1526 e inizi del 1528, a Padova, dove aveva potuto acquisire una certa familiarità con il pensiero di Aristotele, era il primo ad ammettere, probabilmente con un certo livello di sincerità, una non solida conoscenza del greco. Ad esempio, in una lettera a Francesco Spini del 14 novembre del 1545, èdita e discussa da (Ridolfi 1962, 523–525), il Nostro chiede venia per aver scritto alcuni passi “in vulgare et non in greco, perché e’ mi sarebbe una cosa quasi impossibile a scrivere in greco, sappiendo a pena leggere”. Pochi giorni dopo, il 29, in un’altra lettera al medesimo Spini, pubblicata parzialmente in (Bionda 2002:,245 e 263–65), Segni, riferendosi questa volta al latino, dichiara che in esso non “è in tutto come della greca ignorante”. Le formulazioni, naturalmente, non andranno prese alla lettera e, con il medesimo Ridolfi, dobbiamo ritenere che il Nostro fosse comunque in grado di “seguire un testo greco con l’aiuto di una traduzione letterale” (526 n. 28). È in ogni caso dato oramai acclarato, né i miei sondaggi hanno potuto confutare questa acquisizione, che Segni ha basato le sue versioni sulle precedenti traduzioni latine e che per l’Etica ha utilizzato in particolare, ma non solo, quella dell’Argyropoulos citata alla nota nr. 7.

12 (Plaisance 2004, 104–116, 128–129). L’obiettivo di queste lezioni pubbliche era “que les jeunes Florentins s’exercent dans le maniement de la langue toscane à un moment où celle-ci, come l’écrit Bernardo Segni, ‘era favorita, non pure in Italia, ma ancora nella Francia ed in altri confini’, et contribuent à son illustration non seulement dans les lettres, mais aussi dans les sciences qui sont en plein développement” (ivi:,113–114).

13 Oltre che con Argyropoulos-Acciaiuoli (si veda la nota nr. 7), forte è il debito nei confronti della traduzione di Leonardo Bruni e del Burleo (Walter Burley, 1275–1345), autore di una Expositio super libros Ethicorum, scritta fra 1334 e 1341 e di un certo successo nel Rinascimento. Non doveva essere difficile per un fiorentino accedere alla traduzione di Bruni, ma è comunque plausibile che il Nostro abbia utilizzato l’edizione di Jacques Lefèvre d’Étaple pubblicata a Parigi nel 1497 (Lefèvre d’Étaples 1497) e ristampata più volte (Lines 2013, 842): nel seguito citeremo da (Lefèvre d’Étaples 1541). Questa comoda edizione riproduce, trascurando alcune cose minori, le seguenti opere: una epistola prefatoria del d’Étaples a Jean Rély (Johannes Rellicus), vescovo di Angers; la traduzione dell’Etica Nicomachea dell’Argyropoulos, intercalata dal commento a cura del medesimo d’Étaples; una epistola del medesimo a Guillaume Budé; una tavola di concordanze fra i Magna Moralia e la Nicomachea; la traduzione dei Magna Moralia di Giorgio Valla; il Dialogus de moribus di Leonardo Bruni; un breve poemetto in esametri intitolato Virtutis querimonia ex Baptista Mantuano (Battista Spagnoli, 1448-1516); l’Introductio in Ethicen Aristotelis del d’Étaples, preceduta da una epistola a Germain de Ganay; la traduzione della Nicomachea di Leonardo Bruni; l’antica traductio, ovvero quella di Grossatesta, della medesima opera. Circa il Burleo, (Lines 2013, 835 n. 38) menziona ben quattro edizioni, tutte veneziane, per concludere che “this curious fact may indicate that the work was reproduced for the benefit of students in Padua, which is where Segni may have become acquainted Feliciano with it”. Sulla questione delle fonti di Segni in generale, si possono consultare (Rolandi 1996; Lines 2013, 828–841).

14 Grossatesta (163.8–9): “moralis vero, ex more fit seu advenit. Unde et nomen habuit, parum declinans a more”. Argyropoulos semplifica, omettendo μικρὸν παρεκκλῖνον ἀπὸ τοῦ ἔθους (f. 25v, § 1): “moralis autem ex consuetudine comparatur, unde et nomen habuit tale”. Bruni (f. 17r): “moralis autem ex assuetudine fit, unde et nomen habet parumper a more declinans”.

15 Contrariamente alla prassi italiana, preferisco intendere il come utilizzato ad introdurre un nome, indicante, come l’inglese as, “the role or function of a person, event or thing” (Carter & McCarthy 2006, 51, § 19a), ovvero la qualità di quella persona o cosa, come una preposizione, anziché come un avverbio di modo. Sulla questione, si veda, ad esempio, (Pierrard 2002).

16 Il come in effetti manca in Bruni (f. 14v: “id si ita est beatos dicemus vivencium quibus existunt existentque praeditta, beatos autem homines”) e Argyropoulos (f. 20r, § 97: “quod si ita sit, viuentium eos quibus ea qua diximus & insunt & inerunt beatos dicemus: beatos autem homines”), ma è presente in Grossatesta (158.6-7: “si autem ita, beatos dicemus vivencium quibus existunt et existent quae dicta sunt, beatos autem ut homines”).

17 (Feliciano 1543), donde nel seguito saranno desunte le citazioni delle traduzioni dei suddetti commenti; per le citazioni greche di Eustrazio, invece, ci si baserà sull’edizione (Heylbut 1892), che raccoglie una serie di commenti alla Nicomachea tramandati dal codice Coisl. 161 (saec. XIV) ed opera di Eustrazio di Nicea, Michele di Efeso e un anonimo. Eustrazio scriveva μακαρίους δέ, φησίν, ἀνθρώπους, ἤτοι κατὰ τὸ ἁρμόζον ἀνθρωπίνῃ φύσει (EN 102.11-12), tradotto da Feliciano con “beatos vero, inquit, ut homines: idest, quatenus hominum naturae convenit” (f. 33v, rr. 7-8). Per dovere di completezza si deve segnalare che ὡς è presupposto anche dal commento di Aspasio, che però non era noto a Segni: EN 30.33-34 μακαρίους δὲ οὕτω, φησίν, ἐροῦμεν ὡς ἀνθρώπους (Heylbut 1889).

18 Si noti che l’errore è segnalato chiaramente da Acciaiuoli (f. 39v, § 58: “ubi nonnulli in textu habent Calypso: vult dicere Circe”), che mette proprio il nome di Circe in traduzione, e da Eustrazio (“Circe apud Homerum inquit, non Calypso” (f. 52r, r. 30); 196.36-37: τὰ ἔπη ταῦτα ἡ Κίρκη δοκεῖ λέγειν παρὰ τῷ ποιητῇ, οὐχ ἡ Καλυψώ). Al contrario, Grossatesta (177.13) e Bruni (f. 24r) mantengono il nome Calipso.

19 Dagli originali ὃν δέ κ’ ἐγὼν ἀπάνευθε μάχης ἐθέλοντα νοήσω / μιμνάζειν παρὰ νηυσὶ κορωνίσιν, οὔ οἱ ἔπειτα / ἄρκιον ἐσσεῖται φυγέειν κύνας ἠδ’ οἰωνούς, si passa al più incompleto ὃν δέ κ᾽ ἐγὼν ἀπάνευθε μάχης πτώσσοντα νοήσω, / οὔ οἱ ἄρκιον ἐσσεῖται φυγέειν κύνας, tradotto con “Chi fia, che lunge la paura il guidi / Dalla battaglia, à tal non vo’ chè basti / Fuggire il morso de’ rabbiosi cani” (151).

20 La cosa era sfuggita a (Lefèvre d’Étaples 1541, 29v), ma naturalmente non sfuggirà a (Vettori 1584, 165), che anzi, nel notare che nella analoga citazione della Politica (III 14, 1285a10-14) la frase è correttamente attribuita al capo dei Greci, non mancherà di ricordare l’errore di Circe. Non è inopportuno aggiungere in questa sede che il testo omerico citato nella Politica è sostanzialmente il medesimo.

21 “Addit autem Aristoteles, secutus auctoritatem Homeri; aliquando cubile, ac Venerem, adolescens, & qui viget, in viridique aetate constitutus est: hoc vero apud poetam edidit Thetis, cum Achillem consolaretur, maerentem ob interitum sodalis: proposuit enim mater cuncta; quae valerent ad tantum dolorem e pectore eius eijciendum. In VII quoque horum librorum, cum corporis cupiditates exprimeret, quas necessarias esse vult, illic quoque Veneris usum in ipsis appellavit” (Vettori 1584, 179).

22 Sull’espressione proverbiale δεύτερος πλοῦς, si veda la recente analisi di (Martinelli Tempesta 2003).

23 Cf. “secundum secundam aiunt navigacionem” (Grossatesta 177,16); “quod secundo loco est” (Bruni f. 24v); “secunda (ut inquiunt) navigatione” (Argyropoulos f. 39r, § 58). Molto sintetico il commento di Eustrazio (EN 139.20-26): τὸ τοῦ μὲν καπνοῦ καὶ κύματος. τὰ ἔπη ταῦτα ἡ Κίρκη δοκεῖ λέγειν παρὰ τῷ ποιητῇ, οὐχ ἡ Καλυψώ. καπνῷ δὲ καὶ κύματι ἀπείκασε τὸ τοιοῦτον ἄκρον, τὸ φευκτὸν αὐτοῦ δεικνὺς ὁ φιλόσοφος. ἁμαρτωλότερον δέ φησι τὸ μᾶλλον ἐναντίον τῷ μέσῳ καὶ ἀνομοιότερον καὶ ἀρνούμενον τὴν πρὸς τὸ μέσον συγγένειαν, ἧττον δὲ τούτου, ᾧ δηλονότι πρῶτον προσάγειν δεῖ ἡμᾶς αὐτοὺς διὰ τῶν ἐθῶν ἀπάγοντας τοῦ μᾶλλον ἐναντίου τῷ μέσῳ (“carmina verò haec, quibus Ulysses monetur, ut à fumo, & unda navim argeat, Circe apud Homerum inquit, non Calypso, fumo & undae hic Aristoteles extremum id comparat, quod fugiendum est: quod etiam magis peccabile appellat, quod medio simile aliquantulum est, in quo minus peccamus. cui scilicet, dum assuefecimus, ab altero recedentes primum debemus accedere” [f. 52r, rr. 29–34}). Di ben altra pasta quello di Pier Vettori: “id quod etiam commemorat Calypsonem Homericam suasisse Ulyssi: cum enim per medium duorum, valde pericolosorum scopulorum navi traiecturus esset, idest Scyllam, atque Charybdin; iussit illum cursum tenere extra fumum & fluctum, vitareque rupem, in qua saevius illud monstrum insideret: indeque impetum faceret in praetervehentes, ac naves absorberet. Non unum autem hoc loco animadvertendum est; sed plura: primum memoriae peccatum esse auctoris: neque enim Calypso fuit, quae Ulyssem erudivit, & quomodo declinare cum sociis malum illud posset, sed Circe: deinde neque Circe ipsa, haec verba apud poetam edidit, sed Ulysses, exhortans remiges, ut magno animo essent, sperarentque se salvos & incolumes inde evasuros, ut consilium ipsius secuti, e gravioribus malis exierant: Nam quod interpres Graecus ait; haec Homeri verba esse, admonentia Ulyssem, & falsum & ineptum est; Quanta autem apud nos auctoritas eius esse debeat, hinc intelligere licet; quod rem apertam ignoravit, & quae fallere non poterat, si scire curasset; sed ille etiam peccavit in eo, quod putavit per fumum et fluctum accipiendos esse ambos scopulos, cum eorum tantum alter intelligendus sit, qui magis periculosus foret: hoc enim congruit sententiae Aristotelis, qui praecipit, ut ab extremo illo nobis caveamus, quod facilius nos in flagitia et scelera abripere potest: & a medio, virtuteque dimovere. Ut autem noster dux & auctor sapientiae, apte atque eleganter usus est hac poetae sententia; ita Porphyrius Tyrius in primo eorum librorum, quos scripsit de non vescendis animantibus (De abst. I 47), cum multa exposuisset bona; quae secum adfert tenuis victus, dixit etiam ipsum, huc respiciens, ἀπὸ καπνοῦ, καὶ κύματος corporis nos liberare” (Vettori 1584,112).

24 Langer fa riferimento alle discussioni, già menzionate all’inizio di questo lavoro, che Segni intratteneva nella casa dell’amico Cardinale Niccolò Ardinghelli con questi e con Filippo del Migliore nell’anno 1546, quando il Nostro era a Roma alla corte del Papa Paolo III.

25 Da Segni tradotto: “Oltradiquesto egli è più difficile impresa à combattere contro al piacere ché contro all’ira; sicome Heraclito anchora afferma. Mà circa il più difficile consiste sempremai l’Arte, & la Virtù; perché il bene in questo modo apparisce più eccellente. Laonde per tal’ cagione tutta la faccenda della morale, & civile disciplina debbe essere intorno al regolar’ il piacere, & il dolore; perché chi userà bene queste due cose sarà buono: & chi male, sarà allincontro cattivo. Sia detto adunche infin quì‚ chè la Virtù consiste circa il piacere‚ & circa il dolore; & anchora chè dalle cose, dalle quali ella è generata, ella piglia l’augumento, & la morte; quando cioè esse cose generantila non son’ fatte nel medesimo modo: & dipiù s’è detto‚ chè essa Virtù opera quelle medesime cose, che furon’ principio della sua generatione” (85).

26 È naturalmente difficile stabilire se Segni ebbe la possibilità di sentirlo dal vivo. Sul liutista si consulti almeno (Lanfranchi 1975).

27 “Chè (à dire il vero) egli è manifesto, chè à chi vorrà misurare la felicità secondo la fortuna converrà dire un’ medesimo spessevolte felice, & misero; & farlo non altrimenti ché un’ Camaleonte, & debolmente fondato” (57).

28 Queste le parole di Acciaiuoli: “Chamaeleon enim est animal parvo leoni simile: quod non videtur habere proprium colorem, sed cuicumque colori adhaeret talis coloris apparet, & hoc penè circa omnes colores sibi accidit, veluti si rubeo adhaeret apparet rubeus, & sic non permanet in eodem colore. dicitur autem chamaeleon. i. ἀπὸ τοῦ χάμαι (sic) .i. humileon. Est enim ut diximus quasi parvus leo” (f. 20v, § 87). Eustrazio non dice molto di più: cf. Eustr. EN 95.25-27 ὁ δὲ χαμαιλέων ζῷον βραχύτατον, φύσιν ἔχον ῥᾳδίως πρὸς τὰ παρακείμενα μεταβάλλεσθαι χρώματα, κἀντεῦθεν φεύγειν τὴν αἴσθησιν τῶν ἐπιβαλλόντων τὴν ὄρασιν (“Сhamaeleon vero animal admodum parvum quoddam est tali natura praeditum, ut facile ad vicinos colores immmutatus (sic), inspiсientium oculos effugiat” [f. 31r, rr. 50–52]).

29 Altre fonti antiche, quasi certamente non note a Segni: alcuni frammenti di Teofrasto, tramandati da Fozio e Plutarco (frr. 365A e 365D: Fortenbaugh et al. 1993, 166–171; Sharples 1995, 90–98); il De natura animalium di Eliano (II 14); Cyranides II 43 (Kaimakis 1976, 183).

30 “Per che seguitando egli ancora fece una sala, dove di terretta erano alcune figure di Apostoli et altri santi in tabernacoli; e per Giovanni da Udine suo discepolo, il quale per contrafare animali è unico e solo, fece in ciò tutti quegli animali che Papa Leone aveva, il cameleonte, i zibetti, le scimie, i papagalli, i lioni, i liofanti e gli altri animali stratti [così nel testo dell’edizione del 1550; si intenda stranieri, come nell’edizione Giuntina del 1568]. Et inoltre che di grottesche e vari pavimenti egli tal palazzo abbellì assai, diede ancora disegno alle scale papali et alle logge cominciate bene da Bramante architettore, ma rimase imperfette per la morte di quello...” (Vasari 1550, 553–554). Su Giovanni Ricamatore, detto Giovanni da Udine, si veda (Furlan 2016).

33 Traducono la frase aristotelica tra virgolette, come se fosse una citazione, (Aristotle 2002, 106, 2009: 16), mentre più espliciti nel ritenerlo proprio una citazione poetica sono (Caiani 1996, 212 e nota 109) e (Aristote 1990, 77 e nota 2).

34 Per una analisi della questione, si veda (Wolf 2013, 51–53).

35 “La traduzione, la parafrasi, il commento vengono spesso presentati non tanto come un sussidio alla comprensione del testo aristotelico, quanto come un suo surrogato, che permette di impadronirsi delle dottrine in esso contenute senza leggerlo” (Bianchi 2012b, 484; corsivi dell’autore).